
A seguito di un controllo dell’Agenzia delle Entrate mi sono stati contestati come compensi alcuni versamenti in contanti effettuati su un conto corrente a me intestato, ma che non uso per la professione. È legittima tale contestazione?
In caso di indagini finanziarie il fisco considera compensi o ricavi tutti quei versamenti che non sono confluiti nella relativa contabilità della professione o dell’attività imprenditoriale o comunque non hanno concorso alla determinazione del reddito imponibile.
A questa presunzione è ammesso, per il contribuente, fornire adeguata giustificazione come ad esempio: “somme estranee all’attività professionale”; “trasferimento di fondi”; ecc. È compito del contribuente fornire una giustificazione (trattasi di uno dei pochi casi di “inversione dell’onere probatorio”) e il solo fatto che il conto sia utilizzato per esigenze personali o familiari (e non sia dunque quello destinato ad accogliere introiti professionali e pagare le relative spese), non viene normalmente ritenuta una giustificazione valida.
Infatti, il professionista ha la capacità di far affluire le somme introitate in tutti i conti di cui abbia la disponibilità. Il concetto di disponibilità deve essere esteso anche ai conti a lui non direttamente intestati ma per i quali ne sia di fatto il “gestore”, anche se non esclusivo.
In definitiva, non esiste una casistica fissa ma sussiste il principio base di fornire al fisco prova che i versamenti non siano rilevanti nella determinazione del reddito imponibile (così anche per l’imponibile Iva, se applicabile) o che di essi lo stesso contribuente ne abbia già tenuto conto in sede di dichiarazione.
In difetto di questa prova, si può procedere al recupero dell’imposta evasa con sanzioni e interessi.